di Alfredo Romano
Quella volta che
a Parigi (era il 1980) entrai nell’atelier di Roland Sarver in rue Charle V,
per il solo fatto che parlassi la lingua italiana, il pittore mi prese a cuore.
Era un tipo allampanato, i capelli lunghi sul grigio perennemente in disordine,
occhi cerulei, la voce calma e rassicurante che ti metteva a proprio agio, la bocca aperta sempre a un
sorriso, circondato a tutte le ore da amici benché occupato a pennellare su qualche tela. Io conversavo con lui in francese,
ma poi ogni tanto si fermava e mi implorava di parlare in italiano anche se non
afferrava il significato. Per Roland la lingua italiana era la più musicale e
la più dolce del mondo. Quando poi scoprì che suonavo la chitarra, dovetti
tirar fuori un bel po’ del mio repertorio e, sinceramente, oltre le canzoni di
protesta molto in voga a quei tempi, quelle di Domenico Modugno risultarono le
più gradite a Roland proprio per la riconosciuta melodia italiana. Capitò un
giorno che un giornalista entrò nell’atelier mentre cantavo La donna riccia di Modugno, e ne fu talmente rapito che chiamò la moglie al
telefono e mi costrinse, si fa per dire, a cantargli la canzone via cavo.
Così, tra una
radioterapia e una chemio, benché deboluccio e sempre con un po’ di febbre
addosso, quando varcavo la soglia dell’atelier di Roland io andavo in sollucchero
e mi pareva di stare in ottima salute, anche se tutti erano sicuri del
contrario. Tanto è vero che Giuseppe, il mio amico d’infanzia che gestiva un
ristorante in Rue de Beautreillis (la via dove morì Jim Morrison per capirci) era seriamente preoccupato per
me. Ma poi finii a cantare anche nel locale del mio amico, dove, oltre a
Modugno, agli avventori piaceva tanto Bella
Ciao, il nostro inno partigiano che in Francia era stato reso famoso da Yves Montand.
Talvolta Roland mi chiedeva di fermarmi a pranzo per
far compagnia a lui e alla sua giovane compagna tedesca Brighitte, un bel tipo
biondo e longilineo adorata da tutti i frequentatori dell’atelier. E fu così
che tirai fuori anche la mia arte culinaria, salentina in primis. Non c’era il
gas in casa e dovetti arrangiarmi con una piastra elettrica anche per un piatto
di spaghetti ed altre pietanze in bella allegria per tutti gli avventori della
casa: artisti, scrittori, giornalisti e… uomini di mondo, avrebbe detto Totò.
Era il mese di luglio e Mina, la mia compagna, era
rimasta a Civita Castellana per via del suo incarico di commissario agli esami
di maturità. Finiti gli esami, mi raggiunse a Parigi e le feci conoscere Roland,
il suo atelier e Brighitte.
Un giorno Roland si prese la briga di farmi un ritratto a carboncino mentre
suonavo la chitarra. Lo fece anche a Mina e ne uscì un profilo a guisa di dama
rinascimentale.
Ma ecco che un giorno mi s’avvicinò Roland con tra
le mani una tela bianca 80x50 cm:
“Alfredò,
ecco una tela per te: dipingi quello che vuoi.”
Ho creduto a uno scherzo e: “Grazie, Roland,” ho
ribattuto “ma io non ho mai preso un pennello in vita mia!”
“E allora? Provaci, no?”
“Roland: dire poesie, cantare, cucinare, ma
dipingere, dài…!”
Ma Roland non demorse. E fu così che tra lo scherzo
e il faceto decisi di provare: in fondo si trattava solo di giocare nei tempi
morti del mio, si fa per dire, soggiorno parigino.
“Che dipingi allora? Ce l’hai un soggetto?”
“Sì, ce l’ho: dipingo Mina!”
“Certo che è un azzardo come primo tentativo fare un
ritratto.”
“Ci provo, che ne dici?”
“Bien bien!”
La cosa più incredibile fu che Mina si mise in posa
per farmi da modella e sembrava proprio seria nella sua parte. Non mi venne in
mente che, visto che al Gemelli di Roma mi avevano diagnosticato sei mesi di
vita, le persone che mi circondavano in genere erano propense ad assecondare
ogni mio desiderio. E inconsciamente, chissà, forse io volevo lasciare un
ricordo, l’ultimo, per la mia compagna.
Dopo quattro giorni venne fuori il ritratto di Mina.
A Mina piacque, non se l’aspettava, diceva che era bello. Roland sentenziò che
assomigliava a un ritratto egizio per i colori e i segni un po’ essenziali.
Ma commisi un delitto. Poiché il mio soggiorno a
Parigi si allungava, avevo preso gusto a dipingere, ma non osavo chiedere
un’altra tela bianca a Roland. E cosa feci? Rimbiancai la mia tela per eseguire
un secondo ritratto di Mina. Che, quando se ne accorse, si mise a piangere
quasi, proprio sconsolata. Ma Mina (Ditegli
sempre di sì, come da commedia di Eduardo) si rimise pazientemente nel suo
ruolo di modella. Stavolta cambiai strategia: intendevo non solo ritrarre Mina,
ma ritrarre anche l’atelier di Roland con tutti i quadri astratti appesi alle
pareti e suppellettili varie. Azzardai anche con i colori che stavolta li volli
più vivaci. Il lavoro si protrasse per molti giorni stavolta, tanto che arrivò
il momento di tornare in Italia e non avevo concluso il quadro. Ecco, dovevo
lavorare ancora sul mento di Mina, sproporzionato assai, ma la rassicurai che,
tornati a casa, mi sarei rimesso al lavoro per rimodellare il ritratto. Prima
di partire, Roland mi donò il pennello col quale avevo osato ritrarre Mina,
pennello che si trova ancora dietro al quadro incastrato nell’angolo retto di
sinistra in basso.
La sera che partimmo da Parigi per Civita Castellana
con la nostra vecchia Renault5, incappammo in un’avventura. Ma nel corso dei
tanti viaggi per Parigi quante volte avevamo rischiato la vita. Ricordo una
tormenta di neve di notte sul Moncenisio perduti come usignoli nella bufera,
quando non ci apparivano neanche i margini della strada oltre la quale c’era il
burrone. Ma la notte che tornammo da Parigi con nell’auto il ritratto di Mina, eccolo
pronto un indesiderato guasto al motore. L’auto procedeva lentamente con un
rumoraccio sinistro e così uscimmo dall’autostrada e approdammo nella radura sperduta
di un bosco sperando in qualche ora di sonno in attesa d’una officina che
avremmo cercato di buon mattino. Il quadro lo avevamo posto in bella vista sul
sedile posteriore e, scherzando io e Mina, ogni tanto ridevamo del quadro: “Se
arriva la polizia” se ne usciva Mina ogni tanto “e scorge il quadro, ci
arrestano per trafugamento di opere d’arte!” E giù a ridere.
Il meccanico fu svelto e generoso e ripartimmo con
santa pazienza. Ma al confine, cui si arrivava dopo una lunga discesa, proprio
in prossimità della dogana dove c’erano delle auto in fila per la visione dei
documenti, d’improvviso non mi funzionarono più i freni: attimi di terrore e,
per non tamponare le auto in fila, questione di secondi, sterzai repentinamente
a destra per infilarmi con le ruote di destra in una canaletta dove l’auto
impattò finendo la sua corsa. Le due gomme a terra erano squarciate, era
domenica e nessun soccorso era possibile. Se ne accorse un doganiere italiano e
fu pronto a svelarci che, proprio qualche giorno prima, un auto con quattro
ragazzi a bordo era finita in un burrone per il troppo abuso di freni. Morti
tutti e quattro. Ci corse un brivido: sarebbe bastato che i freni avessero smesso
di funzionare una ventina di metri prima, che avremmo subito la stessa sorte
dei ragazzi. Purtroppo la nostra vecchia Renault, come altre auto allora, non
disponeva di freni a disco. Ma non sapevamo della questione dei freni. Di
sicuro da quel giorno, freni a disco o no, preferisco sempre far uso delle
marce invece di azionare i freni. Finimmo in una stanza d’albergo e il giorno
dopo, con l’intervento del carro attrezzi e del gommista, proseguimmo il nostro
viaggio di ritorno. “Che strano,” rifletté Mina qualche ora più in là “è da più
di un anno che facciamo avanti e indietro ogni mese Parigi-Civita Castellana e per
un paio di freni la nostra vita stava per scivolare, per uno scherzo del
destino, su di una buccia di banana. Citando Dario Fo in Prete Liprando avrei potuto dire anch’io: “Sono andato a Como per
niente…!”
Il quadro con il ritratto di Mina, qualcosa che ancora
oggi fa parte della nostra intimità da non svelare, non lo esposi nel
soggiorno, ma in camera da letto, sulla parete di fronte. Ma è da allora che
Mina, mirandosi in quel quadro di buon mattino, ogni tanto mi rivanga il
misfatto:
“Alfredo, mi avevi assicurato che, tornati in Italia,
avresti ripreso il ritocco del mio ritratto: non ti pare che nel quadro io stia
lì a snocciolare un’oliva in bocca?”
“Ma, Mina, lo sai che quello è il mio quadro
incompiuto, no?” alzandomi di buon mattino per prepararle un caffè fumante,
colazione con caffè d’orzo e miele, yogurt e biscotti col 30% di grassi in meno.
Alfredo Romano, l'incompiuto ritratto di Mina a Parigi nel 1980. 80 x 50 cm. |
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