giovedì 4 luglio 2013

Quel ritratto di Mina nell’atelier di Roland Sarver a Parigi



di Alfredo Romano

Quella volta che a Parigi (era il 1980) entrai nell’atelier di Roland Sarver in rue Charle V, per il solo fatto che parlassi la lingua italiana, il pittore mi prese a cuore. Era un tipo allampanato, i capelli lunghi sul grigio perennemente in disordine, occhi cerulei, la voce calma e rassicurante che ti metteva a proprio agio, la bocca aperta sempre a un sorriso, circondato a tutte le ore da amici benché occupato a pennellare su qualche tela. Io conversavo con lui in francese, ma poi ogni tanto si fermava e mi implorava di parlare in italiano anche se non afferrava il significato. Per Roland la lingua italiana era la più musicale e la più dolce del mondo. Quando poi scoprì che suonavo la chitarra, dovetti tirar fuori un bel po’ del mio repertorio e, sinceramente, oltre le canzoni di protesta molto in voga a quei tempi, quelle di Domenico Modugno risultarono le più gradite a Roland proprio per la riconosciuta melodia italiana. Capitò un giorno che un giornalista entrò nell’atelier mentre cantavo La donna riccia di Modugno, e  ne fu talmente rapito che chiamò la moglie al telefono e mi costrinse, si fa per dire, a cantargli la canzone via cavo.
Così, tra una radioterapia e una chemio, benché deboluccio e sempre con un po’ di febbre addosso, quando varcavo la soglia dell’atelier di Roland io andavo in sollucchero e mi pareva di stare in ottima salute, anche se tutti erano sicuri del contrario. Tanto è vero che Giuseppe, il mio amico d’infanzia che gestiva un ristorante in Rue de Beautreillis (la via dove morì Jim Morrison per capirci) era seriamente preoccupato per me. Ma poi finii a cantare anche nel locale del mio amico, dove, oltre a Modugno, agli avventori piaceva tanto Bella Ciao, il nostro inno partigiano che in Francia era stato reso famoso da Yves Montand.
Talvolta Roland mi chiedeva di fermarmi a pranzo per far compagnia a lui e alla sua giovane compagna tedesca Brighitte, un bel tipo biondo e longilineo adorata da tutti i frequentatori dell’atelier. E fu così che tirai fuori anche la mia arte culinaria, salentina in primis. Non c’era il gas in casa e dovetti arrangiarmi con una piastra elettrica anche per un piatto di spaghetti ed altre pietanze in bella allegria per tutti gli avventori della casa: artisti, scrittori, giornalisti e… uomini di mondo, avrebbe detto Totò.
Era il mese di luglio e Mina, la mia compagna, era rimasta a Civita Castellana per via del suo incarico di commissario agli esami di maturità. Finiti gli esami, mi raggiunse a Parigi e le feci conoscere Roland, il suo atelier e Brighitte.

Un giorno Roland si prese la briga  di farmi un ritratto a carboncino mentre suonavo la chitarra. Lo fece anche a Mina e ne uscì un profilo a guisa di dama rinascimentale.
Ma ecco che un giorno mi s’avvicinò Roland con tra le mani una tela bianca 80x50 cm:
Alfredò, ecco una tela per te: dipingi quello che vuoi.”
Ho creduto a uno scherzo e: “Grazie, Roland,” ho ribattuto “ma io non ho mai preso un pennello in vita mia!”
“E allora? Provaci, no?”
“Roland: dire poesie, cantare, cucinare, ma dipingere, dài…!”
Ma Roland non demorse. E fu così che tra lo scherzo e il faceto decisi di provare: in fondo si trattava solo di giocare nei tempi morti del mio, si fa per dire, soggiorno parigino.
“Che dipingi allora? Ce l’hai un soggetto?”
“Sì, ce l’ho: dipingo Mina!”
“Certo che è un azzardo come primo tentativo fare un ritratto.”
“Ci provo, che ne dici?”
“Bien bien!”

La cosa più incredibile fu che Mina si mise in posa per farmi da modella e sembrava proprio seria nella sua parte. Non mi venne in mente che, visto che al Gemelli di Roma mi avevano diagnosticato sei mesi di vita, le persone che mi circondavano in genere erano propense ad assecondare ogni mio desiderio. E inconsciamente, chissà, forse io volevo lasciare un ricordo, l’ultimo, per la mia compagna.
Dopo quattro giorni venne fuori il ritratto di Mina. A Mina piacque, non se l’aspettava, diceva che era bello. Roland sentenziò che assomigliava a un ritratto egizio per i colori e i segni un po’ essenziali.
Ma commisi un delitto. Poiché il mio soggiorno a Parigi si allungava, avevo preso gusto a dipingere, ma non osavo chiedere un’altra tela bianca a Roland. E cosa feci? Rimbiancai la mia tela per eseguire un secondo ritratto di Mina. Che, quando se ne accorse, si mise a piangere quasi, proprio sconsolata. Ma Mina (Ditegli sempre di sì, come da commedia di Eduardo) si rimise pazientemente nel suo ruolo di modella. Stavolta cambiai strategia: intendevo non solo ritrarre Mina, ma ritrarre anche l’atelier di Roland con tutti i quadri astratti appesi alle pareti e suppellettili varie. Azzardai anche con i colori che stavolta li volli più vivaci. Il lavoro si protrasse per molti giorni stavolta, tanto che arrivò il momento di tornare in Italia e non avevo concluso il quadro. Ecco, dovevo lavorare ancora sul mento di Mina, sproporzionato assai, ma la rassicurai che, tornati a casa, mi sarei rimesso al lavoro per rimodellare il ritratto. Prima di partire, Roland mi donò il pennello col quale avevo osato ritrarre Mina, pennello che si trova ancora dietro al quadro incastrato nell’angolo retto di sinistra in basso.
La sera che partimmo da Parigi per Civita Castellana con la nostra vecchia Renault5, incappammo in un’avventura. Ma nel corso dei tanti viaggi per Parigi quante volte avevamo rischiato la vita. Ricordo una tormenta di neve di notte sul Moncenisio perduti come usignoli nella bufera, quando non ci apparivano neanche i margini della strada oltre la quale c’era il burrone. Ma la notte che tornammo da Parigi con nell’auto il ritratto di Mina, eccolo pronto un indesiderato guasto al motore. L’auto procedeva lentamente con un rumoraccio sinistro e così uscimmo dall’autostrada e approdammo nella radura sperduta di un bosco sperando in qualche ora di sonno in attesa d’una officina che avremmo cercato di buon mattino. Il quadro lo avevamo posto in bella vista sul sedile posteriore e, scherzando io e Mina, ogni tanto ridevamo del quadro: “Se arriva la polizia” se ne usciva Mina ogni tanto “e scorge il quadro, ci arrestano per trafugamento di opere d’arte!” E giù a ridere.
Il meccanico fu svelto e generoso e ripartimmo con santa pazienza. Ma al confine, cui si arrivava dopo una lunga discesa, proprio in prossimità della dogana dove c’erano delle auto in fila per la visione dei documenti, d’improvviso non mi funzionarono più i freni: attimi di terrore e, per non tamponare le auto in fila, questione di secondi, sterzai repentinamente a destra per infilarmi con le ruote di destra in una canaletta dove l’auto impattò finendo la sua corsa. Le due gomme a terra erano squarciate, era domenica e nessun soccorso era possibile. Se ne accorse un doganiere italiano e fu pronto a svelarci che, proprio qualche giorno prima, un auto con quattro ragazzi a bordo era finita in un burrone per il troppo abuso di freni. Morti tutti e quattro. Ci corse un brivido: sarebbe bastato che i freni avessero smesso di funzionare una ventina di metri prima, che avremmo subito la stessa sorte dei ragazzi. Purtroppo la nostra vecchia Renault, come altre auto allora, non disponeva di freni a disco. Ma non sapevamo della questione dei freni. Di sicuro da quel giorno, freni a disco o no, preferisco sempre far uso delle marce invece di azionare i freni. Finimmo in una stanza d’albergo e il giorno dopo, con l’intervento del carro attrezzi e del gommista, proseguimmo il nostro viaggio di ritorno. “Che strano,” rifletté Mina qualche ora più in là “è da più di un anno che facciamo avanti e indietro ogni mese Parigi-Civita Castellana e per un paio di freni la nostra vita stava per scivolare, per uno scherzo del destino, su di una buccia di banana. Citando Dario Fo in Prete Liprando avrei potuto dire anch’io: “Sono andato a Como per niente…!”
Il quadro con il ritratto di Mina, qualcosa che ancora oggi fa parte della nostra intimità da non svelare, non lo esposi nel soggiorno, ma in camera da letto, sulla parete di fronte. Ma è da allora che Mina, mirandosi in quel quadro di buon mattino, ogni tanto mi rivanga il misfatto:
“Alfredo, mi avevi assicurato che, tornati in Italia, avresti ripreso il ritocco del mio ritratto: non ti pare che nel quadro io stia lì a snocciolare un’oliva in bocca?”
“Ma, Mina, lo sai che quello è il mio quadro incompiuto, no?” alzandomi di buon mattino per prepararle un caffè fumante, colazione con caffè d’orzo e miele, yogurt e biscotti col 30% di grassi in meno.
 
Alfredo Romano, l'incompiuto ritratto di Mina a Parigi nel 1980. 80 x 50 cm.

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