VENIVA DA LECCE LA BELLA MAESTRINA
di Alfredo Romano
Vestiti d’un grembiulino nero, un po’
lacero ma pulito, con un colletto bianco inamidato allacciato da un grosso
fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro alla
finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l’arrivo della
bella maestrina. Era puntuale.
Ad un minuto dal suono della campanella
sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600 color verdino con le portiere che
dall’interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato,
vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione,
la maestrina, nell’atto di scendere dall’auto, divaricando le belle gambe,
lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca.
A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto:
spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale
ognuno al suo banco a far finta di niente al sopraggiungere in classe della
maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche
a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che
scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla
quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo
gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma
delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un
profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli
dell’ultima fila di banchi che a quel tempo erano i gli asini della
classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da
Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce.
Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che
era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non
conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di
cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le
braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c’erano traini pieni di quintali
di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta
una festa, con le belle strade illuminate di notte che sembrava giorno, con i
suoi cinema dove potevi vedere Totò, conoscere Amedeo Nazzari; con i suoi
teatri dell’Ottocento dove si esibivano i grandi cantanti d’opera, le belle e provocanti
ballerine alcune delle quali si mormorava venissero da Parigi.
Ad occhi aperti noi ragazzi di Collemeto,
sognavamo Lecce e giuravamo: quando saremo grandi andremo a Lecce, Lecce
che dista da Collemeto soltanto 17 km.
E la maestrina si divertiva a
sorprenderci, a raccontarci di quel paese delle meraviglie che era Lecce.
E rideva, rideva molto delle nostre goffaggini, del nostro essere dei cafoni di
provincia che in italiano sapevamo appena pronunciare buongiorno. Per noi i
Leccesi erano gli abitanti di questa città meravigliosa che sognavamo. Nel
dopoguerra in Italia c’era il sogno americano, per noi ragazzi di
Collemeto c’era invece il sogno leccese: e ci bastava. Succedeva talvolta
che mio padre si recasse a Lecce. Tornava sempre con delle cose, a
volte anche qualche cassetta di frutta, oppure qualche chilo di carne. Ai
vicini non bisognava far vedere, non era giusto suscitare invidie, pur trattandosi
di poca roba.
Poteva capitare da parte nostra di
non apprezzare sempre le sorprese di mio padre e allora lui con rabbia e
risentimento: “Disgraziati!” ci apostrofava “lo sapete che questa roba
l’ho comprata a Lecce? Che mi costa mille lire come mille santi del
Paradiso!”.
Poi un giorno di tanti anni fa, avevo 16
anni, arrivai a Civita Castellana. Alcuni mesi prima di partire, sapendo di
dover emigrare a Civita Castellana, andai a curiosare sull’atlante geografico.
La vedevo tanto lontana Civita Castellana,
non ero mai stato così lontano. E mi immaginavo boschi da favola, mi
immaginavo fiumi, mi immaginavo montagne, alberi giganteschi, paesaggi che
avevo intravisto solo sui libri di scuola.
Mi apparve bellissima Civita Castellana,
questi fossi così lussureggianti, queste valli che si perdono in lontani
casali come fossero fatti di cioccolato, i fiumi, questi tortuosi torrenti
e cascate sormontati da altissimi pioppi, le montagne sullo sfondo, il
paesaggio vario con le discese e le salite che contrastavano con le aride
e monotone pianure delle mie parti.
Tutto mi sembrava bello. Sì, entravo in un
paese nuovo, fantastico, ero eccitato, impazzivo in quel furgone anche qui
col naso schiacciato contro il vetro del finestrino e gli occhi che non
si davano pace nell’imbarazzo di dover rubare con lo sguardo il paesaggio
meraviglioso che mi sfumava alle spalle e invano gridavo a Vittorio, il
conducente, di rallentare: “Avrai tempo, avrai tempo”, mi assicurava.
Qualche giorno dopo poi, mi accadde di
incontrare un signore, proprio nel Duomo di Civita. Il signore s’accorse
che non ero di Civita Castellana e sorpreso dal mio accento mi domandò:
“Sei un leccese?”.
“Un leccese?” risposi “beh, sì, della
provincia: più precisamente sono di Collemeto, una piccola frazione di
Galatina. A dire il vero ho sempre sognato di essere un leccese, ma mi dispiace
deluderti, sono di Collemeto, un paese piccolo che non conosce nessuno,
anzi non è neppure un paese, sono proprio quattro gatti.”
“Veramente? Ah che bello, ci chiamano
leccesi? Almeno potrò vantarmi e dire che vengo da Lecce, un cittadino,
non un cafone di Collemeto!”.
Qualche anno dopo, tornando al mio paese,
mi capitò di incontrare un mio amico, proprio di Lecce città. E gli
confidai: “Lo sai che adesso sono un leccese anch’io?”.
“No, a Civita Castellana”.
Il mio amico non capì, io però sì. E
dentro un po’ amaramente prese a echeggiarmi il motivo del Bolero, quello
di Ravel, fino a che il crescendo non mi fece esplodere in una fragorosa
risata, fra l’incerta ilarità del mio amico.
1993. Un primo piano della maestra Ada Silia nel corso dell'incontro con i suoi vecchi alunni di Collemeto. |
Racconto
letto nella sala delle conferenze della biblioteca comunale di
Civita Castellana il 3/4/1993
in occasione della presentazione del
volume “Salento tra mito e realtà”.
[1] Esiste una folta comunità
di salentini a Civita Castellana dove il termine leccese ha assunto
nel corso degli anni un significato improprio, come dire terrone, incivile, paria…
nel corso degli anni un significato improprio, come dire terrone, incivile, paria…
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