domenica 29 novembre 2015
sabato 16 maggio 2015
I SALENTINI A CIVITA CASTELLANA / RITORNO ALLA TENUTA TERRANO: LE FOTO DI IERI E DI OGGI.
Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento
a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola
che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati
nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono
durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario
terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla.
Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo
proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta
c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo
tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori
decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel
frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono
più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia
finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa
dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito
di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però,
ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che
documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della
lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito
di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per
arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto
ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso
il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine
e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia
casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi
verso il mio casolare: ero tentato di tornare indietro tale era
l’emozione che mi assaliva. E sì, perché era come tornare sul
luogo della triste avventura dei miei, come essermi messo in
viaggio per trovare mio padre, mia madre, i miei fratellini.
I casolari che avvistavo d’intorno ormai tutti abbandonati,
né si vedeva anima viva all’orizzonte; un forte vento invece
che ululava quale colonna sonora col sole che dardeggiava a
picco. E quando sono arrivato alla casa dove abbiamo abitato
e patito per tanti anni, nel silenzio che regnava d’intorno sono
apparsi tutti i miei fantasmi. Sì, avevo bisogno di sfatare quel
buio oltre la siepe. Ho ripreso quindi con la fotocamera gli stessi
scenari di allora, poi ho sostato per un’ora circa davanti al mio
casolare in un silenzio irreale immaginandomi visi e situazioni
così remote. Intorno non più la terra battuta da uomini e mezzi,
ma l’erba spontanea che dava l’idea del triste abbandono.
Ho desiderato, per assurdo, di ritornare ad abitare nel mio
casolare, quasi a farlo rivivere in una seconda puntata in
compagnia di volti e scenari di un tempo. Ah, la nostalgia!
E sì, perché non si stava da re, ma c’era un mondo semplice
e vero che era la vita, quella che, a dispetto del falso progresso,
valeva la pena di vivere. Con la mente carica di mille visioni e
pensieri, mi sono incamminato poi sulla via del ritorno e, per
l’ultima volta, mi sono voltato e m’è venuto spontaneo fare un
saluto, quasi che in fondo, laggiù, mia madre stesse sventolando
un fazzoletto.
Ho desiderato, per assurdo, di ritornare ad abitare nel mio
casolare, quasi a farlo rivivere in una seconda puntata in
compagnia di volti e scenari di un tempo. Ah, la nostalgia!
E sì, perché non si stava da re, ma c’era un mondo semplice
e vero che era la vita, quella che, a dispetto del falso progresso,
valeva la pena di vivere. Con la mente carica di mille visioni e
pensieri, mi sono incamminato poi sulla via del ritorno e, per
l’ultima volta, mi sono voltato e m’è venuto spontaneo fare un
saluto, quasi che in fondo, laggiù, mia madre stesse sventolando
un fazzoletto.
Tornato a casa, ho confrontato le nuove foto a colori della Tenuta
Terrano con quelle in bianco e nero scattate negli anni ’60-’70.
E allora m’è venuta un’idea, quella di porre a confronto gli stessi
scenari corredati da didascalie che narrano una storia. Si tratta di
un documento fotografico sull’emigrazione dei salentini a Civita
Castellana anche attraverso la storia della mia famiglia.
Terrano con quelle in bianco e nero scattate negli anni ’60-’70.
E allora m’è venuta un’idea, quella di porre a confronto gli stessi
scenari corredati da didascalie che narrano una storia. Si tratta di
un documento fotografico sull’emigrazione dei salentini a Civita
Castellana anche attraverso la storia della mia famiglia.
Per non dimenticare un periodo storico che appartiene non solo a
Civita Castellana, ma a tutto il Salento e l’Italia tutta.
Civita Castellana, ma a tutto il Salento e l’Italia tutta.
Ed ecco più di 60 documenti fotografici con le didascalie che
narrano un paesaggio e una storia.
narrano un paesaggio e una storia.
APRILE 2012. A sinistra uno dei tanti caseggiati ormai abbandonati e senza vita che si vedono lungo la strada bianca prima di arrivare al mio vecchio casolare.
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APRILE 2012. Altri casolari abbandonati che si vedono percorrendo la strada bianca che porta al mio.
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APRILE 2012. S'intravede meglio il mio caseggiato là in fondo. La tentazione è quella di scappare, ma una brezza di vento addolcisce le mie emozioni.
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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIO. In piedi: io Alfredo, segue mio cugino Cosimo seminarista (oggi parroco di Collemeto), mia madre Lucia e mio fratello Aldo; in basso, papà Giovanni con i miei fratelli Eugenio e Angelo. |
OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIO. Mia madre Lucia si vedeva come spersa lassù nella Tenuta Terrano e diceva sempre: «Ho una casa tanto bella e comoda al mio paese, prima stavo in mezzo alla gente e sono venuta qui a soffrire di solitudine.»
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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIO. Avevo 18 anni nella foto. Alzarsi ogni mattina prima dell’alba era dura. Mio padre si svegliava ch’era ancora buio e si recava a perlustrare la striscia di terra per la raccolta, quella con le foglie di tabacco più mature. La pianta veniva sfogliata dal basso in alto, per ogni pianta si sfogliavano sei-sette foglie, tutto il campo veniva mediamente passato sei volte. Le foglie, a seconda della loro altezza, avevano un nome: frunzone quelle più basse, poi, salendo, quarta, terza, seconda, prima e primiceddha. Le prime raccolte ci costringevano a stare più chini. Per sopportare il piegamento s’appoggiava l’avambraccio sinistro sul ginocchio, che così reggeva il peso del corpo. Nel punto d’appoggio si formava un vero e proprio callo. Con l’ultima raccolta, prima e primiceddha, finalmente si poteva stare in piedi e sembrava quasi una passeggiata; così veniva anche più facile parlare e cantare, avendo come colonna sonora il monotono ticchettio delle foglie sfrondate.
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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIO. I miei genitori in posa sulla strada bianca che fiancheggiava la nostra casa. Torno a Collemeto una volta all'anno anche per i miei genitori che non ci sono più e che stanno lì al cimitero uno accanto all’altro, immobili, che ti fissano dai riquadri e pare che mi dicano ogni volta: Eh, fìju, sta tte rretiri? Te nde vai sempre ramingu e ne lassasti cquai suli suli.
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OGGI 2012 E IERI 1969: LO STESSO SCENARIO. Mia madre Lucia intenta a cucire e a rattoppare i panni davanti alla strada bianca nei pressi della casa colonica. Era bravissima a cucire mia madre. Da ritagli di stoffe o in disuso, lei ti confezionava pantaloni, camicie, mutande, maglie di lana (quelle che non sopportavi). Sfilava vecchi maglioni di lana e con un gioco di ferri faceva nascere coperte per l’inverno, oppure calzettoni di lana con i legacci, prese per la cucina, mantelli da donna per l’inverno. Con la mia tonaca nera da seminarista si cucì un vestito per portare il lutto alla morte di suo padre Pasqualino. Con le mie camicie senza colletto, sempre da seminarista, vennero fuori mutande e strofinacci. Ma era brava anche con l’uncinetto, il ricamo, il tombolo. A Collemeto aveva una macchina da cucire, che però non potette portarsi a Civita Castellana. E ne soffriva per questo. Nel mio guardaroba conservo ancora dei maglioni di lana pungenti, calzettoni di lana, prese per la cucina. Per non dire alcune bambole alle quali confezionava dei vestitini in miniatura.
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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIO. A destra mia madre Lucia scoperta a pulire uno sgombro. A sinistra la casa di Terrano fiancheggiata dalla strada bianca che portava alla villa del proprietario. A destra e a sinistra c’erano le coltivazioni di tabacco. Questo luogo, dove ho trascorso tanti anni con i miei genitori e i miei fratelli, mi procura la stessa suggestione di trovarmi davanti a un pezzo di Collemeto che si è trasferito a Civita Castellana. Qui, oltre ai miei, vivevano altri parenti e tante famiglie provenienti da paesi salentini diversi. Un Salento in miniatura insomma.
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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIO. Mio fratello Eugenio, detto lu cacanitu perché l’ultimo nato.
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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIO. Sosto davanti al capannone del tabacco e ho per le mani due pollastrelle. Di sicuro era passato un venditore ambulante di pollame vivo e mia madre mi aveva incaricato di chiuderle nel pollaio.
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OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIO. A destra il capannone con i telai del tabacco appoggiati alla parete. Mia madre Lucia che usciva dal pollaio per rientrare a casa. Per quella storia del gallo di don Silvano, consiglio di assistere al video Leccesi c’era una volta / Il gallo di don Silvano tratto dal blog Spigolature Salentine.
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OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIO. Mio fratello Eugenio scherza davanti casa con mio cugino Antonio Mariano, che è stato mio compagno di scuola alle elementari. Alle loro spalle il magazzino e il pollaio. D’inverno, quando non c’era la pressione del tabacco, la domenica pomeriggio noi ragazzi organizzavamo in casa delle feste da ballo con dei dischi per ballare lo shake o i lenti degli anni Sessanta, detti ‘balli sul mattone’. Arrivavano anche le ragazze, ma eravamo tutti al di sotto dei 20 anni. A Terrano c'erano circa 50 famiglie circa, per cui di ragazzi ce n’erano tanti. D’estate, la domenica pomeriggio, si puntava anche al lago di Trevignano; chi non disponeva di un motorino s’accontentava delle acque dei vari torrenti che scorrevano sotto i fossi (le forre) nei punti dove la corrente si radunava in piccoli bacini. Si provavano anche i tuffi, come d’abitudine dagli scogli del nostro mare giù nel Salento, ma, per via del fondale basso, non mancavano le capocciate contro la sabbia… Me ne ricordo una! Beh, c’era anche una buona dose d’incoscienza. Si stava anche dietro alle ragazze: civitoniche o salentine non faceva differenza. Allora era di moda lo struscio in via Roma. Ricordo che alle otto di sera improvvisamente le vie si svuotavano: era ora di cena e i civitonici rientravano tutti a casa. I primi tempi, questa cosa che i civitonici scomparivano tutti insieme alle otto di sera era una vera stranezza per noi salentini.
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OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIO. La finestra che corrispondeva alla cameretta in cui dormivamo noi quattro fratelli. Da notare i telai ripiegati e accatastati, le bombole del gas e il carrello con cui si trasportava il tabacco raccolto nel campo che veniva stretto in una spaziosa vecchia coperta detta manta. Sullo sfondo il casale più vecchio del caseggiato San Massimo. |
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OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIO. La finestra di sinistra era la cameretta dei fratelli Mariano, quella di destra dei fratelli Romano.
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OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO. Io e mia madre in un momento di gioia e di tenerezza.
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OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO. Io e mia madre... |
OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO.
Nel giardino di papà
sogno dei copiosi frutti il tuo amor ritrovato che rimpianto mamma parole ci insegnasti più grandi di te gesti e pensieri donare senza pretese soffrire senza mai dire domani fra le tue albe svegli di già le belle tue albe che più non sanno
di cupi tramonti.
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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Mia madre che lava i panni davanti casa. Nel periodo della lavorazione del tabacco c’era soltanto la domenica pomeriggio per qualche svago, ma solo per gli uomini. Le donne no, le nostre mamme no. Le mamme approfittavano della domenica pomeriggio, quando tutti gli uomini erano usciti, per lavare la biancheria di una settimana, specie gli indumenti da lavoro sporchi del grasso del tabacco, un grasso maledetto che ti impregnava mani e indumenti. Era un super lavoro casalingo. Mia madre negli anni ha rimarcato sempre la solitudine di quei pomeriggi domenicali. Le donne perciò erano quelle che più pativano la fatica e l’isolamento. Gli uomini, per lo meno, i nostri padri, si recavano a Civita a piedi e passavano di osteria in osteria a farsi un bicchiere, giocare a carte, oppure puntavano sul Bar Sangallo che era il ritrovo dei salentini. Ritornavano a casa che era già buio ed erano sempre un po’ alticci… ma quei cinque chilometri a piedi li conoscevano a memoria ormai. |
OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Con mia madre Lucia vicini al lavatoio dove per tanti anni si è spezzata la schiena per lavare i panni di tutti noi.
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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Ultimo anno di tabacco. Nella foto, mio padre Giovanni e mia madre Lucia davanti al capannone del tabacco; dietro, la mia 500 Fiat che poi finì a Collemeto. I miei genitori sono rimasti in questo luogo fino a quando io e i miei fratelli siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso anzi a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia.
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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. La mia 500 di seconda mano. Sono in macchina e metto in moto: direzione Civita Castellana per raggiungere la biblioteca dove lavoravo. Ma c’era sempre qualcuno cui dare un passaggio. Ero uno dei pochi a possedere un’auto. Così anche chi doveva partorire d’urgenza si rivolgeva a me per correre al pronto soccorso. Mi bussavano anche di notte, un vero servizio d’ambulanza! Bastava poi mettere l’auto in moto che in tanti mi s’affollavano intorno per le ordinazioni: sale, zucchero, pasta, sigarette… perfino la posta. Le lettere arrivavano tutte a Piazza di Massa n. 52 presso il negozio di generi alimentari Becchetti, allora il primo entrando a Civita da via Terrano. La maggior parte delle lettere erano quelle d’amore destinate alle ragazze i cui fidanzati erano rimasti giù nel Salento oppure emigrati in Germania o in Svizzera. Quando ritornavo a Terrano con la spesa fatta e la posta, era tutto un corrermi incontro. Non dico la gioia delle ragazze per una lettera pervenuta o la delusione quando l’attesa era stata vana: roba che mi sentivo quasi colpevole della manifesta tristezza sul volto delle morose.
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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Nella foto di destra mio padre Giovanni e sua cugina Felicetta Romano in un campo di burley. Fu l’ultimo anno di coltivazione del tabacco. Il tabacco, in verità, non ha arricchito mai nessuno a Civita Castellana, giusto la speranza di un avvenire per i figli che restavano.
Fu gente di Collemeto emigrata a Civita Castellana alcuni anni prima a capacitare mia madre a partire. Mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione.
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APRILE 2012. Un lato del vecchio caseggiato S. Massimo che dà sulla strada bianca. E’ visibile ancora la targa.
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APRILE 2012. Al di là dello strada bianca c'era l'orto di mio padre e il terreno per la preparazione dei semenzai del tabacco.
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APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.
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APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.
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APRILE 2012. La strada bianca in direzione Civita Castellana nel tratto in cui fiancheggiava la mia casa colonica. In questo punto mia madre s'affacciava sempre per un mio ritorno. E, quando accadeva, era un correre correre.
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APRILE 2012. Mi sono incamminato sulla via del ritorno. Mi volto per scattare l'ultima foto a quello che per me è un luogo dell’anima ormai.
FINE
I COMMENTI DEI LETTORI
Raffaella Verdesca scrive:
26/06/2012 alle 12:11
Mi complimento per l’eccezionale perizia di Alfredo nell’impostare graficamente pagine e immagini al pari delle riviste culturali e dei volumi scientifici più pregiati.
Perchè ci vuole capacità per far rivivere anche al lettore più distratto il proprio viaggio. Alfredo aiuta la nostra immaginazione prestandoci la sua, quella supportata da vecchie fotografie scaltre, quasi consapevoli della funzione che in futuro avrebbero avuto: materializzare la memoria.
Quella di Romano non è una memoria qualsiasi, ma una memoria storica al pari di quella che nuota fra le pagine dei testi storici ufficiali. La mia mente vola d’istinto alle splendide e tristi immagini dell’emigrazione del popolo italiano verso l’America, alle vicende drammatiche degli Italiani in Crimea, dei deportati di ogni tempo, e si perde nei reportage fotografici dei casermoni di Aushwitz. Già, quei fabbricati austeri, quelle casupole documentate tra il 1968- ’75 e oggi da Alfredo mi iniettano una sensazione di solitudine, di abbandono, di confinamento. Certo, a Civita Castellana non c’era prigionia se non nel cuore, nè vessazioni crudeli se non nella diffidenza e nel disprezzo della gente del posto verso gli intrusi salentini o nello sfruttamento da parte dei proprietari terrieri di questa mano d’opera bisognosa e disperata. Ma c’era dolore e lo si legge a chiare lettere nelle parole e nei ricordi dell’autore, in quelle emozioni struggenti, nel rimpianto della vita di allora, vita semplice, ma solo attraverso gli occhi dell’adolescente Alfredo e non dell’uomo. L’uomo, infatti, rimpiange i tempi della famiglia unita, degli affetti più cari ancora in vita ad attendere il suo ritorno sulla strada bianca o a svegliarlo all’alba per anticipare i compaesani nella raccolta del tabacco, ma non può accettare l’ingiustizia di una vita da reclusi nè di una madre malata di nostalgia. L’uomo Alfredo sente la mancanza della spensieratezza dei suoi diciott’anni, quando ogni sacrificio non conosceva strade traverse o scorciatoie e quando la famiglia e il suo benessere occupavano ogni settimana di tutti quegli otto anni il primo posto in classifica. L’amore vince sempre, cambia sempre, cresce sempre.
Alfredo Romano dimostra con la propria vita e il proprio passato che l’amore è l’unica motivazione valida per accettare rinunce, pesi e sofferenze, per trovare il bello anche nel brutto e l’accettabile perfino nell’impossibile. Quando oggi il nostro scrittore si volta indietro a lanciare l’ultimo sguardo lucido a Terrano e al suo passato, infinita è la dolcezza che lascia e si riprende da quelle coccole materne rimaste a vagare fra le pietre del casolare antico, dalle immagini rassicuranti dei suoi cari, presenze poste da Dio a segnargli la via che l’ha portato a noi oggi e a se stesso in ogni attimo della sua vita.
Credo fermamente che la testimonianza di Alfredo Romano, come quella di tutti coloro che hanno messo a disposizione di tutti i ricordi e le esperienze vissute, possa essere annoverata come Patrimonio dell’Umanità e fiore all’occhiello della cultura salentina perchè non esiste pietra o mattone che non racconti una storia nè vita che non lasci un insegnamento.
Quanto sarebbe bello e giusto osservare, a questo punto, un minuto di silenzio per i nostri predecessori coraggiosi! Facciamolo per onorare i Romano e tutte le famiglie di nostri conterranei e connazionali che hanno sbancato montagne per lasciare a noi una strada più larga e un cammino più facile. Facciamo in modo che non sia stato un sacrificio inutile!
Alfredo Romano scrive:
Mi chiedo a volte: ma come faremmo noi spigolatori senza Raffaella Verdesca? Devo ammettere che i suoi commenti hanno il pregio del tocco magico non dissimile da quello di un grande chef che, con un’ultima spolverata geniale, rifinisce un piatto che appaga non solo il palato, ma anche il naso e la vista. Raffaella insomma ce l’ha mandata qualche angelo buono per dispensare grazie a noi poveri mortali. Lei stessa è un dono e perciò guai a chi ce la tocca!
Salvatore Armando Santoro scrive:
Si, sono emozioni forti che anch’io ho provato quando sono tornato in Vico Trieste a Polistena, dopo tantissimi anni, a vedere la casa dove avevo abitato da piccolo per alcuni anni prima di essere ritornato a Reggio Calabria, mia città natale. Mio padre era invece salentino di Galatina (vicino casa tua a Collemeto quindi). L’emozione che si prova è fortissima e le lacrime sincere. Ma chi può capirci? Solo quelli come noi che vanno via dalla propria terra (io sono andato via per spirito di avventura) e dopo, col passar degli anni, li assale forte il desiderio di tornare indietro. Siamo uguali, Alfredo, le nostre emozioni sono quelle delle persone sensibili ed io ti ammiro.
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